La Guglia del Frate
Illustrazioni: Ilenya Querio
Foto: Barbazachi
Luca Fassio
Nazareno Valerio
Due Parole…..
La Valle Soana viene proposta e arricchita dalla
definizione di “Valle Fantastica”.
E ciò mi pare che corrisponda meritatamente
alla realtà, soprattutto per le caratteristiche
ambientali e di antropizzazione, mai troppo invasiva.
Dell’ambiente alpino c’è tutto: il fiume che scorre
incassato tra le rocce; le diffuse pinete che
tonificano il respiro;
i verdi pascoli che risuonano dello scampanellio
delle mucche e i richiamidei pastori;
le montagne bellissime che spingono lo sguardo
in alto, a illuminarci con l’azzurro del cielo,
o a intimorirci colla tormenta e il fragore delle valanghe.
Ma, se volessimo esaminare più da vicino la
Valle Soana, dovremmo renderci conto che
nella “Valle Fantastica” esiste una valletta
laterale ancor più fantastica:
la Valle di Forzo.
In essa sono racchiuse e si estrinsecano le
caratteristiche più spiccate di questo meraviglioso
angolo alpino.
In particolare, parlando di monti, si mostrano con
tutta la loro bellezza le più affascinanti vette della Valle Soana:
dalla Torre di Lavina al Monveso di Forzo e alle Ùje del Ciardoney.
Monti che esprimono un fascino indescrivibile e che ci fanno anelare alla loro conquista.
Mentre più in basso guardiamo un po’ intimiditi le pareti
strapiombanti che hanno ispirato tanti alpinisti di fama a
confrontarsi, in epoca più recente, con le loro placche,
diedri, fessure spossanti: Ahperian, Ancisieu, Gran Losa,
Grise Nèire, Cùnì, ….
Ma, in questa corona di gioielli ce n’è uno speciale, una perla senza confronti:
La Guglia del Frate
Posta a un’altezza non troppo
considerevole, un po’ incassata tra le
falde dell’Ancisieu, è ben visibile da
chi percorra la strada che solca il
fondovalle per giungere a Forzo. Basta
alzare lo sguardo al momento giusto,
ed eccola là:
incombente e terrificante.
La guglia del Frate è un pinnacolo di gran rilievo, secondo me, per la Valle di Forzo.
In essa si racchiudono aspetti molto significativi della vita alpestre di questa storica valle:
la Storia Alpinistica, il Simbolo e la Leggenda.
La Storia Alpinistica.
Nell’ormai lontano 1962, quando si arrampicava con gli
scarponi: …niente pedule, spit, nuts, secchielli…,
un alpinista canavesano di grande capacità: Enrico Frassey,
che ha legato il suo nome anche ad altre prestigiose imprese alpinistiche,
si impegnò, con il compagno Ferdinando Vallesa nel confronto
con la parete sud della Guglia del Frate. A tutta prima poteva
sembrare una pazzia. Invece, ce la fece. Onore al merito!
Bravo Frassey!
Poi, la Guglia sembrò passare nel
dimenticatoio di tutti; salvo che di Uno:
Nazzareno Valerio.
Questi, assiduo frequentatore della natia Valle Soana,
cominciò a “pensare in grande”, come
si dice nelle occasioni che sfiorano il limite del possibile.
Questa Guglia era sempre presente nei suoi pensieri: doveva osare!
E così, tre anni dopo –anno 1965- riuscì nella grande impresa:
la salita della Guglia in solitaria.
Impresa che richiama ancora oggi il termine “pazzesca”.
Eno in uscita dal diedro
Ma Valerio è Valerio, e non si fece intimorire da quel
tremendo appicco.
Franco Perino nel diedro
La relazione tecnica della salita,
la si può leggere nella Guida del Gran Paradiso
(itinerario 250c), fornita dallo stesso Valerio, e
ci indica chiaramente le difficoltà che ebbe ad
affrontare.
Fessura terminale
…Tutta Roba per Principianti…..
Ma non bastava: c’era ancora una cosa che Valerio voleva
compiere: la prima salita invernale;
effettuata il 31 dicembre 1966 con l’amico Franco Marchiandi:
Buon Anno!
Nei tempi più recenti questa difficile via sembra entrata nel dimenticatoio degli alpinisti moderni,
tant’è che, per la scarsa frequentazione, per altro anche dei valligiani, non esiste più neanche
traccia del sentiero di avvicinamento, sommerso dalla vegetazione.
Il Simbolo
Proprio così: non è che negli anni ’60 ci fosse qualche addetto a tracciare il sentiero di avvicinamento alla Guglia.
Il sentiero, molto ripido, esisteva perché nella povera economia locale anche un pugno d’erba era importante: e le donne del luogo, le “ciatrine” si inerpicavano nei posti più impervi, quindi anche alle pendici del Frate, pur di strappare un po’ di alimento per il bestiame, comunque anch’esso ben scarso.
Quante donne morirono in questa pericolosa attività!
Sono delle vere eroine di un’epoca ormai lontana.
E’ giusto dimenticarle? Esse sono parte importante della
nostra civiltà montanara. Bisogna allora ricordarle in modo
consono, che simboleggi la loro forza, le loro fatiche e il loro
sacrificio.
Ancora una volta ci ha pensato il grande Eno Valerio.
Fu lui il promotore di una iniziativa, che si realizzò con la sostanziale collaborazione
della Società di Mutuo Soccorso di Forzo.
Apporre sulla cima della Guglia del Frate una statua
della Madonna della Guardia, proprio a ricordo della
tante donne della Valle che si erano immolate per
amore della loro famiglia e per la sopravvivenza nella loro Valle.
Certo che l’impresa non si presentava tanto facile!
Intanto era necessario, con i fondi raccolti, procurare
la statua che si prestasse, nelle dimensioni e nella
iconografia alla significativa raffigurazione simbolica.
Quindi bisognava salire in punta alla Guglia,
passando dalla crestina a nord della stessa, e
predisporre un basamento, non solo idoneo a
sostenere la statua in modo solido, ma che fosse
anche apposto in modo tale da rendere la Statua ben
visibile ai Valligiani, per rappresentarne in modo
emotivo e simbolico il forte significato.
Infine bisognava portarvi la Statua, e ancorarla al supporto.
Più facile a dirsi che a farsi!
L’impresa fu comunque compiuta; e il 15 di agosto del 1990
le campane di Forzo suonarono a festa!
Bel colpo!!!
Bravo Valerio e Bravi Tutti!!!
La Leggenda
Facile stimolare la fantasia davanti a sì bella Guglia.
L’immaginazione, corre veloce, acuita dalla visione terrificante degli strapiombi e dallo slancio del Pinnacolo.
Ci volle un altro grande personaggio della Valle Soana, Don Pierino Balma, che, assieme all’amico Alessandro Calligaris, si dedicasse a creare un nuovo mito; una leggenda che ci parla del grande attaccamento, del grande amore del valsoanino per la sua terra: la terra che non può dimenticare, e sulla quale vuole vivere e morire.
La Leggenda del Frate
La giornata era fosca: su per il cielo scuro nuvolosi pregni di tempesta vagavano disordinatamente. In lontananza, il Monveso, la Roccia Azzurra apparivano attraverso uno strato di nebbia sottile come un velo: indice infallibile di pioggia. Ma noi eravamo partiti ugualmente, io e un montanaro; muscoli saldi, volontà forte, gioventù.
Si voleva salire alla Punta Tressi, poi per cresta
toccare la Punta del Cavallo: impresa che ci
avevano indicata meritevole di una qualche
attenzione alpinistica.
I rombi dei tuoni si avvicinarono man mano, poi alcune gocce!
Salimmo ancora. “Più su c’è una balma – mi aveva detto il compagno – fra duecento metri; proprio al di sopra della roccia del Frate: vi faremo riparo”.
La grandine ci colse prima che fossimo giunti. Fradici ci rifugiammo nella grotta, silenziosi. “Vede quello spuntone laggiù?”. Protesi il corpo un poco fuori dalla balma: vidi un piccolo culmine che si staccava dai dirupi.
“La Guglia del Frate”, proseguì: “É restato là tra i monti, povero frate!”
Risi allegramente. “Un uomo? già! Una delle solite leggende”
“Se è una leggenda non lo so, ma so che quel poveretto ha potuto trovare finalmente pace”, rispose il compagno stizzito.
Tacqui un momento, per lasciare tempo al suo animo di calmarsi, e poi con voce mansueta:”E come si svolse il fatto?”
Il compagno non rispose subito, poi cominciò la storia con un tono di voce svogliato, ma che andò man mano rinfrancandosi.
“ C’era un giovane bravo, tanto bravo a Tressi in Val di Forzo. Suo padre era campanaro, perché allora c’era la Parrocchia a Forzo. C’era sempre stata, finché ci sono stati i «Fatinairi» su per la montagna, perché in questo vallone erano bravi, e invece a Ronco, cattivi e i preti non volevano che i giganti prepotenti si familiarizzassero con noi. Ma quel giovane era proprio troppo buono, e poi studiava, sa, come studiavano allora: non sui libri, ma su delle carte vecchie come ce ne sono ancora oggi in Comune.
Le ragazze non erano per lui; aveva detto che non
voleva ammogliarsi e non usciva mai se non per
recarsi al lavoro o alla Chiesa.
Finché un giorno il Parroco lo chiamò:
“Dì, vuoi farti frate? Ho ottenuto un posto in convento.
Ci vuoi andare?”
Lui, santo com’era, disse di si, ma veramente gli rincresceva di lasciare i monti: nella notte precedente volle stare alla finestra, al chiaro di luna, e guardare la Torre Lavina che spiccava nel cielo azzurro cupo per le ombre di un fantastico altorilievo.
Al mattino aveva gli occhi umidi di pianto.
Partì, ma, salutando i parenti,
non riuscì a pronunciare una parola.
Arrivò al convento nella piana grande, verdeggiante, e gli parve di essere sperduto! Non un mormorio d’acqua, non tramonti superbi di sole: alberi alti, profumo di resina e di genziana. E, solitario, pianse.
Cominciò gli studi con fervore, ma il suo animo andava sempre più intristendosi: aveva nell’ossa un indeterminato malessere: vedeva le montagne laggiù, come una striscia d’ombra, e un nostalgico desiderio lo stringeva, lo dominava.
Nella notte, salmodiando nella chiesetta gotica, c’era un pianto strano nella voce, e gli altri frati non riuscivano a capirlo. Solo il Padre Guardiano se ne accorse:”Che c’è? Non è vita per te questa?”
Lui parlò delle sue montagne, del suo paesello, dei suoi boschi, dei suoi pascoli.
Il Superiore lo ascoltò: “Figlio, è tentazione! Andrai in un altro convento più lontano. Non vedrai più le Alpi”.
Il giovane chinò il capo e il giorno dopo partì solo con la bisaccia in spalla, il saio unto e le scarpe logore ai piedi. La nuova dimora era peggio della prima: il caldo opprimente; non piante, non erba, seminati soltanto di grano, di mais, tutt’attorno. A perdita d’occhio una piana sconfinata.
Continuò i suoi studi, ma continuò a deperire. Non vedeva più i monti, ma colto da un’irresistibile nostalgia piangeva: e lo spirito si ribellava a quella dura vita tra quattro mura bianche, infuocate dal sole canicolare.
Gli fecero compiere gli studi, poi lo
lascarono partire per un anno perché
ritornasse a Forzo e convertisse i
«Fatinairi»: poi lo avrebbero aspettato
ancora.
Il suo viso si illuminò di gioia quando rivide i suoi monti; e quando il suo piede cominciò a salire, un inno di fede uscì dalle sue labbra arse e sfinite, e il corpo emaciato ebbe un nuovo impeto di vigore. Rivide il suo paesello, sentì le campane della sua Chiesa risquillare e il suono allargarsi tra i valloni e ripercuotersi festoso tra le rupi. Bevve l’aria delle forre e dalla sua gioia uscivano insegnamenti per i compaesani e divenne l’apostolo, il consolatore, l’angelo di tutti. I «Fatinairi» però non si lasciarono avvicinare. Non riuscì a convertirli. Erano troppo neri, troppo forti per ascoltare le sue parole. Il frate era abbattuto per la delusione, e l’anno stava per terminare.
Prima di partire decise di tentare ancora una prova,
e per ottenere la grazia volle ritirarsi sul monte
qualche giorno a pregare, solitario.
Venne in una balma, là sotto. C’era lui solo.
Dal paese non osavano salire per non disturbarlo.
Il terzo giorno un tempo orribile
sconvolse la montagna.
A Forzo tutti rinchiusi nelle case tremavano udendo i rombi e
gli scrosci dei macigni rotolanti per i valloni di Lavina.
Al mattino seguente, quando ad Arcando si svegliarono e volsero gli sguardi verso le rocce che dominano il paese (il tempo si era fatto bello e terso e arioso), videro lassù una figura come di frate: un busto gigantesco. In breve tutti seppero del prodigio. Salirono. La balma non c’era più: su di essa c’era un picco: quello là, lo vede, il Frate.
Così è restato fra i monti e non ha pianto più.”
La bufera scatenata si era andata man mano calmando e parve smorzarsi con le parole commosse del montanaro che sporse il capo fuori dalla balma, scrutò in giro. Poi udii la sua voce festosa: “Guardi laggiù, vicino alla cresta: c’è il sereno!
Un raggio di sole, un raggio di sole, signorino!”.